Dalla disciplina giuridica della pubblicità al Codice di Autodisciplina Pubblicitaria

Nel 1966 l’Associazione Italiana Tecnici Pubblicitari (TP – fondata nel 1945) promulgò il primo”Codice di Lealtà Pubblicitaria”, che pose le premesse per l’attuale “Codice di Autodisciplina Pubblicitaria”. Questa scelta si rese necessaria a causa della scarsità e della obsolescenza delle leggi dello Stato (alcune datate un secolo…) in questo particolare ambito e dei mutati (e mutanti) stili di consumo; un “comune sentire” da parte dei consumatori e una loro maturazione, sotto il profilo dell’essere informati su ciò che si intende acquistare, il suo valore (reale o simbolico) percepito.
Ciò che cambiò realmente fu la consapevolezza che il crescente potere persuasivo della pubblicità non poteva essere lasciato alla lettera dell’art. 41 della costituzione, relativo al diritto di iniziativa economica (del quale la pubblicità è la classica espressione) o regolata solo dagli artt. del Codice Penale 515 (consegna da parte di una ditta commerciale di un bene diverso da quello promesso a un acquirente); 517 (contraffazione marchi e prodotti) e 640 (ingiusto profitto conseguito attraverso l’inganno).

Da allora il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria impone al mondo della pubblicità italiana una serie di regole di comportamento, in virtù della rete che lega utenti, agenzie e media al suo rispetto; a partire dalla salvaguardia dei soggetti più deboli.

Nel prossimo numero vedremo più in dettaglio norme legali e di autoregolamentazione e successivamente, il “libro degli usi” delle CCIAA.

Paolo Mander – Atlantide©