Da una settimana sto leggendo il libro “La Réclame dell’Apocalisse”, di Marco Carnevale. Un pubblicitario con una quarantina d’anni di esperienza, come me; come me nato con l’analogico, cioè TV, radio, carta stampata ed esterna; diversamente da me, che ho sempre operato su budget medio piccoli, è stato attore protagonista del mondo dell’ADV nazionale dall’ultimo decennio del secolo scorso.
Il collega sostiene, sostanzialmente, che l’advertising digitale sia un sorta di grossa bufala, fatta di vuoti numeri, incapace di trasmettere valori, empatia, emozioni. Chi come me si é (obtorto collo) convertito progressivamente alla comunicazione pubblicitaria digitale nel corso degli ultimi vent’anni e alla produzione interamente digitalizzata da oltre 30, porta con se una sorta di nostalgia per quel mondo.
E a quello sono rimasto legato (per ragioni anagrafiche ancor prima che di formazione):
- “annusatore” di carta stampata (non potrei vivere senza libri, e neppure mia figlia) e analizzatore di impaginati di giornali e/o di brochure pubblicitarie;
- tecnico di stampa (soffro da sempre i fuori registro);
- appassionato di carta in tutte le sue forme e colori (non riesco a guardare un foglio senza toccarlo per misurare al tatto, grammatura e carica di caolino, se c’é…).
Dunque immaginate la sorpresa nel vedere smontato pezzo per pezzo da Marco Carnevale quel mondo che, forzatamente, avevo dovuto costruire, anche con l’inserimento di giovani digitalizzatori nel mondo dell’ADV per continuare a vivere del mio lavoro di pubblicitario.
A questo punto mi sono posto una domanda: avrà ragione, in tutto o in parte? E’ davvero impossibile posizionare un brand con la sola Adtech? Che segno lascia nel tempo una tecnica che funziona certamente nel massimizzare i profitti di aziende sales oriented su campagne brevi e mirate ma forse solo in quelle?
Mentre leggevo, poi, mi sono ricordato di un episodio accaduto circa un mese fa, durante un breve soggiorno a Londra.
Mi trovavo in un bar italiano a fare colazione; seduto al tavolino un signore (romano) che beveva un caffè e, contemporaneamente, lavorava con il suo portatile.
Sentendo che parlavamo italiano ha iniziato una conversazione e ci ha chiesto in che città vivessimo. Quando abbiamo detto “Biella”, il signore ha risposto: “ma da voi si costruiscono le cucine…”. Pensando che si confondesse con altro luogo ho risposto, d’istinto: “Non so, da noi si fanno i tessuti in lana, anche se il settore (nato secoli fa…) ha attraversato una crisi strutturale bla bla; ancora oggi i biellesi sfregano un tessuto tra le dita per capirne la qualità…”.
Poi, improvvisamente, si é accesa nella mia mente una lampadina: Aiazzone. A sentire il nome il nostro amico romano/londinese si è illuminato: “Si, Aiazzone!”.
Allora, io sono stato il pubblicitario di Aiazzone per la carta stampata per buona parte degli anni ’90 (tra parentesi Aiazzone non produceva mobili ma li commercializzava), anni in cui gli investimenti in pubblicità del marchio erano già molto inferiori al decennio precedente, quello, per intenderci, del “fenomeno Giorgio Aiazzone” e dello slogan “Provare per credere”; eppure, dopo 25 anni di silenzio mediatico il nome di Aiazzone si trovava ancora, in qualche angolo della mente di quel signore romano/londinese e, sono certo, non solo della sua. Che Carnevale abbia ragione?
Disponibile su Amazon: “La réclame dell’apocalisse”, di Marco Carnevale
Paolo Mander - Atlantide©